Altre ricette di Pellegrini Artusi …e ancora l’invito ai lettori

Altre ricette di Pellegrini Artusi …e ancora l’invito ai lettori

In un precedente numero della nostra rivista Dante Review (Mar-Apr 2021 pag. 6-8), avevamo parlato di Pellegrino Artusi (1820- 1911), grande gastronomo e autore della prima trattazione, che potremmo definire scientifica, della Cucina Italiana con il suo Manuale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del 1891. Il titolo stesso ci suggerisce che, se la cucina è una elaborazione scientifica dei diversi ingredienti, per mangiar bene ci vogliono però talento e doti artistiche

Come promesso, pubblichiamo altre 2 ricette tratte proprio dal libro di Artusi. Questa volte invitiamo a fare due dolci.

  1. BABÀ

Questo è un dolce che vuol vedere la persona in viso, cioè per riuscir bene richiede pazienza ed attenzione. Ecco le dosi:

Farina d’Ungheria o finissima, grammi 250.

Burro, grammi 70.Zucchero in polvere, grammi 50.

Uva sultanina, detta anche uva di Corinto, grammi 50.

Uva malaga a cui vanno levati gli acini, grammi 30.

Lievito di birra, grammi 30.

Latte o, meglio, panna, decilitri 1 circa.

Uova, n. 2 e un rosso.

Marsala, una cucchiaiata.

Rhum o cognac, una cucchiaiata.

Candito tagliato a filetti, grammi 10.

Sale, un pizzico.

Odore di vainiglia

Con un quarto della detta farina e con un gocciolo del detto latte tiepido, s’intrida il lievito di birra e se ne formi un pane di giusta sodezza. A questo s’incida col coltello una croce, non perché esso e gli altri così fregiati abbiano paura delle streghe; ma perché a suo tempo diano segno del rigonfiamento necessario, ad ottenere il quale si pone a lievitare vicino al fuoco, a moderatissimo calore, entro a un vaso coperto in cui sia un gocciolo di latte. Intanto che esso lievita, per il che ci vorrà mezz’ora circa, scocciate le uova in una catinella e lavoratele collo zucchero; aggiungete dipoi il resto della farina, il panino lievitato, il burro sciolto e tiepido, la marsala e il rhum, e se l’impasto riuscisse troppo sodo, rammorbiditelo col latte tiepido. Lavoratelo molto col mestolo finché il composto non si distacchi dalla catinella, per ultimo gettateci l’uva e il candito, e mettetelo a lievitare. Quando avrà rigonfiato rimuovetelo un poco col mestolo e versatelo in uno stampo unto col burro e spolverizzato di zucchero a velo misto a farina.

La forma migliore di stampo, per questo dolce, è quella di rame a costole; ma badate ch’esso dev’essere il doppio più grande del contenuto. Copritelo con un testo onde non prenda aria e ponetelo in caldana o entro un forno da campagna, pochissimo caldo, per lievitarlo; al che non basteranno forse due ore. Se la lievitatura riesce perfetta si vedrà il composto crescere del doppio, e cioè arrivare alla bocca dello stampo. Allora tirate a cuocerlo, avvertendo che nel frattempo non prenda aria. La cottura si conosce immergendo un fuscello di granata che devesi estrarre asciutto; nonostante lasciatelo ancora a prosciugare in forno a discreto calore, cosa questa necessaria a motivo della sua grossezza. Quando il Babà è sformato, se è ben cotto, deve avere il colore della corteccia del pane; spolverizzatelo di zucchero a velo.

Servitelo freddo.

 

  1. ZUPPA INGLESE#

In Toscana – ove, per ragione del clima ed anche perché colà hanno avvezzato così lo stomaco, a tutte le vivande si dà il carattere della leggerezza e l’impronta, dov’è possibile, della liquidità – la crema si fa molto sciolta, senza amido né farina e si usa servirla nelle tazze da caffè. Fatta in questo modo riesce, è vero, più delicata, ma non si presta per una zuppa inglese nello stampo e non fa bellezza.

Eccovi le dosi della crema pasticcera, così chiamata dai cuochi per distinguerla da quella fatta senza farina.

Latte, decilitri 5.

Zucchero, grammi 85.

Farina o, meglio, amido in polvere, grammi 40.

Rossi d’uovo, n. 4.

Odore di vainiglia.

 Lavorate prima lo zucchero coi rossi d’uovo, aggiungete la farina e per ultimo il latte a poco per volta. Potete metterla a fuoco ardente girando il mestolo di continuo; ma quando la vedrete fumare coprite la brace con una palettata di cenere o ritirate la cazzaruola sull’angolo del fornello se non volete che si formino bozzoli. Quando s’è già ristretta continuate a tenerla sul fuoco otto o dieci minuti e poi lasciatela diacciare.

Prendete una forma scannellata, ungetela bene con burro freddo e cominciate a riempirla nel seguente modo: se avete una buona conserva di frutta, come sarebbe di albicocche, di pesche od anche di cotogne, gettate questa, per la prima, in fondo alla forma e poi uno strato di crema ed uno di savoiardi intinti in un rosolio bianco. Se, per esempio, le scannellature della forma fossero diciotto, intingete nove savoiardi nell’alkermes e nove nel rosolio bianco e coi medesimi riempite i vuoti, alternandoli. Versate dell’altra crema e sovrapponete alla medesima degli altri savoiardi intinti nel rosolio e ripetete l’operazione fino a riempirne lo stampo.

I savoiardi badate di non inzupparli troppo nel rosolio perché lo rigetterebbero; se il liquore fosse troppo dolce, correggetelo col rhum o col cognac. Se il tempo avesse indurita la conserva di frutta (della quale in questo dolce si può fare anche a meno), rammorbiditela al fuoco con qualche cucchiaiata di acqua, ma nello stampo versatela diaccia.

Questa dose può bastare per sette od otto persone.

Nell’estate potete tenerla nel ghiaccio e per isformarla immergete per un momento lo stampo nell’acqua calda onde il burro si sciolga.

Saranno sufficienti grammi 120 a 130 di savoiardi.

Per ognuna di queste regioni, si risale indietro nei secoli e nelle varie Corti delle Famiglie che dominavano quei territori.

 

# Nonostante il nome, la zuppa inglese è sicuramente un dolce italiano, ma la sua origine e quella del nome stesso sono incerte e, proprio per questo, hanno dato origine a diverse leggende. Varie regioni italiane la rivendicano come propria. La sua presenza nel trattato dell’Artusi, ne ha consacrato la nascita in Italia e la diffusione è documentata fin dall’Ottocento almeno in tre regioni italiane: Emilia-Romagna, Marche e Toscana. Anche La Francia e l’Inghilterra ne hanno rivendicato l’origine, ma scarseggiano i documenti in grado di confermare tali pretese.

Restiamo quindi in Italia, dove è molto diffusa, in particolare in Emilia-Romagna, in Toscana, a Napoli ed a Roma.

Per ognuna di queste regioni, si risale indietro nei secoli e nelle varie Corti delle Famiglie che dominavano quei territori.

 

A cura di Luigi Catizone


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