L’Itanglese: quante parole inglesi nell’italiano?

L’Itanglese: quante parole inglesi nell’italiano?

I nostri antenati latini, dicevano: Repetita Iuvant, cioè che le cose ripetute aiutano a capire meglio. Quindi ritorniamo, anche se con diversa prospettiva, su un argomento di cui abbiamo già parlato nel numero January-February 2020 della nostra rivista Dante Review (http://danteact.org.au/wp-content/uploads/2019/12/January-February-website.pdf).

Il dizionario Hoepli della Lingua Italiana definisce il termine Itanglese come «la lingua italiana usata in certi contesti ed ambienti, caratterizzata da un ricorso frequente ed arbitrario a termini e locuzioni inglesi». Questi termini si indicano con tre sinonimi: inglesismi, anglicismi e anglismi.

E’ un argomento complicato da trattare e potrebbe dare adito a qualche fraintendimento. Qui non si vogliono certo dare definitive indicazioni su di esso, ma offrire qualche informazione e fare alcune riflessioni su una questione sempre più in evidenza, specie in questo tempo di pandemia.

Anche il presidente del Consiglio dei Ministri, Professor Mario Draghi, durante una visita a metà marzo 2021 al Centro vaccinale di Fiumicino, vicino a Roma, ha usato termini come “Smart working” e “baby sitting”, ma, interrompendosi, ha subito lamentato l’eccessivo uso di parole inglesi nell’italiano parlato tutti i giorni. Sempre Draghi che il Presidente Mattarella preferiscono dire “Certificazione Verde”, invece di Green Pass.

La pandemia ha esasperato questa tendenza e un importante giornalista italiano, Beppe Severgnini, Vicedirettore del Corriere della Sera, acuto osservatore della vita italiana e ottimo conoscitore del mondo anglosassone, già nell’aprile 2020 pubblicava sul suo Giornale un articolo dal titolo significativo “I goffi e inutili anglismi dell’epidemia”.

Scriveva Severgnini (e grazie per averci consentito di usare parte del suo articolo): “L’anglismo inutile non è solo goffo. Rende la comprensione più ostica, soprattutto per chi, oggi, ha necessità di maggiore protezione. Pensate a una persona anziana, che vive sola, non conosce l’inglese e non bazzica sul web: è fisiologicamente, psicologicamente e tecnologicamente vulnerabile. Non aggiungiamoci anche il vocabolario. È possibile — anzi, probabile — che quella persona non conosca il significato di certe espressioni, e non abbia né la voglia né la possibilità di informarsi”. Severgnini cita, a mo’ d’esempio, alcune parole maggiormente usate con la pandemia, come “droplet”, chiedendosi poi: “il diminutivo «gocciolina», per indicare il principale veicolo di contagio, ci sembrava troppo grazioso?”. Altra parola diventata di moda è il food delivery, ma si chiede Severgnini “quanti, tra coloro che non possono uscire per fare la spesa (per età, per prudenza, per motivi di salute), capiscono che sotto si nasconde la vecchia, buona consegna a domicilio?” e ancora, “quanti genitori vorrebbero aiutare i figli con l’e-learning, e a malapena sanno di cosa si tratta?”.

Per Servegnini, le parole chiave di questo periodo sono: lockdown e smart working, ed è una scelta condivisibile.  “Lockdown ha efficaci equivalenti italiani: blocco, chiusura, isolamento. Mentre smart working ce lo siamo inventato: in inglese, lavorare da casa si dice working from home. Chiamarlo smart working — lavoro intelligente — lascia intendere che il lavoro in ufficio sia un po’ ottuso. Il che talvolta è vero, ma spesso no”. E, aggiungo io, è un grosso errore.

Forse gli italiani meno giovani ricorderanno Nando Moriconi, il personaggio interpretato da Alberto Sordi nel film del 1954 “Un Americano a Roma”, che adoperava con grande libertà inglesismi per sentirsi importante ed evoluto.

La pacifica invasione degli anglicismi è iniziata negli anni Novanta ed è cresciuta rapidamente, calcolando che oggi sono circa 6000 (il 20% di tutti i neologismi) i termini di origine anglo-sassone usati nella nostra lingua. Parole come competitor, take-away, provider, tour operator, gap, make-up, location e moltissime altre, che pur hanno facili corrispondenti nell’italiano, vengono impiegate spesso, per snobismo o pigrizia, nella convinzione che l’inglese sia una lingua più autorevole o espressiva.

Nei decenni passati, sono entrate nell’uso corrente anche parole provenienti dal francese, dallo spagnolo e da altre lingue. Nei secoli passati, l’italiano si è formato assorbendo parole e modi di dire prima dal greco e dal latino e poi dagli “invasori”, come arabi, spagnoli e francesi, che sono rimasti sul territorio italiano anche per molti decenni. In particolare, di questa condizione è rimasta ampia traccia nei vari dialetti regionali.

Dobbiamo comunque ricordare che ci sono ormai parole, come bar, sport, football, jeans, rock ecc. che sono entrate definitivamente nell’uso corrente e sono comprese da tutti. Questo rientra nella normale evoluzione di una lingua che acquisisce nuove parole e che nessuno, col tempo, riconduce ad una lingua straniera.

Ricordiamo che in Informatica sono innumerevoli i vocaboli inglesi in uso ormai in tutto il mondo. In questo campo si è verificato lo stesso fenomeno che nei secoli scorsi si verificò nella Musica, dove si usavano, e si usano tutt’oggi, molti termini italiani, avendo avuto la Musica uno speciale sviluppo in Italia, così come l’Informatica di questi ultimi decenni si è sviluppata prevalentemente nei paesi anglo-sassoni.

Alcune volte l’uso di anglicismi è puramente inutile, come per esempio dire Wine bar in una nazione che vanta il maggior numero di vini al mondo. Altre volte l’inglese serve a coprire pietosamente qualcosa di doloroso: Hospice, che indica una struttura di assistenza ai malati gravi terminali che non possono essere curati dai propri familiari a domicilio. Altre volte ancora, come escort, per nascondere qualcosa considerato poco decoroso.

Talvolta si giustifica l’uso di termini derivanti dall’inglese, perché in quella lingua i vocaboli e le espressioni sono più corti, ma allora, controbatte qualcuno ironicamente, dovremmo adottare il cinese, nel quale la maggior parte della parole sono monosillabiche.

Esiste poi il problema che non sempre le parole inglesi vengono usate correttamente (abbiamo detto di smart working) e con la pronuncia giusta (come in tunnel, water, talk show, bipartisan ecc.) o aspirando l’acca (home page). Altra fonte di confusione è l’uso del plurale. L’autorevole dizionario Treccani dice esplicitamente che “i termini inglesi inseriti in un testo italiano non vanno declinati al plurale”, pertanto dire o scrivere in italiano “films, bars, pullovers, sports” e altri, è sbagliato. Grande confusione crea poi l’attribuzione del genere maschile o femminile alla parola straniera e dato che in italiano il genere deve essere assegnato, come si fa con l’articolo o l’aggettivo per un inglesismo? E vogliamo parlare di parole come curriculum che al plurale fa curricula, derivando dal latino, e non curriculums, come fanno alcuni, pensando che derivi dall’inglese.

C’è anche chi, come Corrado d’Elia, si è divertito a recitare alcune sestine della Divina Commedia usando molte parole inglesi di uso frequente nell’italiano corrente:

Infernal tour   Canto I

Nel mezzo degli step di nostra vita
mi ritrovai in location oscura,

che la best practice si era smarrita.

Ahi a dirne about è cosa dura
on the road selvaggio sì hard e forte
che nel mio inside rinova la paura!

Botticelli: Dante Alighieri nell’Inferno

Tant’è strong che il benchmark è la morte;

 ma per il tracking del good ch’i’ vi trovai,
dirò delle altre news ch’i v’ho scorte.

A 700 anni dalla morte del Sommo Poeta Dante Alighieri, considerato il padre della lingua italiana, 7 parlamentari italiani hanno presentato alla Camera e al Senato una proposta di legge a tutela dell’italiano minacciato dall’inglese. Il testo è scaricabile anche in formato Pdf, e indica 11 punti di intervento (vedi riquadro).

La proposta di legge, contiene anche alcuni dati di grande interesse ricavati soprattutto dallo studio dei dizionari Devoto-Oli e Zingarelli. Risulta che dal 1990 a oggi, gli anglicismi sono passati da circa 1.700 a 4.000. Inoltre tra le parole nuove nate negli anni ‘40 e ‘50 gli anglicismi erano circa il 3,6%. Questo numero negli anni ‘60 è salito a quasi il 7%, negli anni ‘70 ha superato il 9%, negli anni ’80 ha toccato il 16% e negli anni ’90 era al 28%. Oggi costituiscono quasi il 50% delle parole nate negli anni Duemila. A preoccupare è soprattutto il fatto che nel nuovo millennio l’italiano sta cessando di evolvere per via endogena e ciò che è nuovo viene espresso principalmente in inglese. Gli anglicismi hanno colonizzato il lessico di tanti ambiti: l’informatica, la formazione, il lavoro, l’economia, la tecnologia, la scienza e sono entrati prepotentemente persino nel linguaggio politico, delle leggi e delle istituzioni.

1) Avviare una campagna mediatica contro l’abuso dell’inglese.
2) Dare il via ad una analoga campagna nelle scuole
3) Emanare linee guida e raccomandazioni per il linguaggio dell’amministrazione e quello istituzionale
4) Evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro
5) Valorizzazione dell’Accademia della Crusca
6) Inserire nella Costituzione che la nostra lingua è l’italiano
7) Sancire che l’italiano non può essere estromesso come lingua della formazione
8) Ripristinare l’italiano come lingua dei PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale)
9) Cancellazione dell’obbligo di conoscere l’inglese, come unica seconda lingua, nella pubblica amministrazione
10) Adoperarsi perché l’italiano ritorni a essere lingua di lavoro in Europa
11) Trasformare la lingua italiana in un bene da esportare

Il documento fa anche un’altra interessante osservazione, affermando che “Il problema non sta nelle parole come bar, film, sport o scanner, che in buona sostanza si pronunciano e scrivono secondo le nostre regole e producono ibridazioni italiane (barista, filmare), né nell’accettazione di anglicismi ormai storici, bensì nella quantità e frequenza di quelli nuovi che violano il nostro sistema fono-ortografico e stanno modificando il nostro lessico e il nostro patrimonio linguistico”.

Nel dizionario delle 7.000 parole “di base” di Tullio De Mauro (quelle cioè che compongono oltre il 90% dei vocaboli utilizzati normalmente), nel 1980 si contavano una decina di inglesismi, ma nell’edizione del 2016 sono decuplicati e ce ne sono 129.

Il problema è, come si vede, molto interessante e fortemente complesso. Si può certamente discutere a lungo e vi saranno sempre motivazioni pro e contro.

Certamente bisogna evitare di usare termini inglesi, o comunque stranieri, quando ne esistono italiani corrispondenti, altrettanto chiari, semplici ed efficaci. Evitare cioè di adoperare parole inglesi, o straniere, per pura esibizione e per fare lo snob (“cioè chi ammira e imita ciò che è o crede sia caratteristico o distintivo di ambienti più elevati; chi ostenta modi aristocratici, raffinati, eccentrici, e talora di altezza, superiorità” Vocabolario Treccani) o, peggio, per ignoranza o pigrizia.

Per concludere in allegria, ricordo a quelli che hanno la mia età la celeberrima canzone napoletana Tu vuo’ fa’ l’americano di Renato Carosone che nel ritornello diceva: “Tu vuo’ fa’ l’americano/’Mericano, mericano/Ma si’ nato in Italy/Sient’ a mme, nun ce sta niente ‘a fa’/Ok, napulitan/Tu vuo’ fa’ l’american/Tu vuo’ fa’ l’american”.

 

Per evidenziare l’entità del problema, riporto alcune parole inglesi usate, con varia frequenza, nell’italiano corrente (Scusate le tante e involontarie omissioni)

account cut off gate packaging smart
alert gay party smartphone
app day global paperless software
delivery governance password speaker
band design green performance speech
bar designer guideline pick up spending review
barman desk players spot
baby detective hacker poker spread
best practice digital hall policy standard
blackout disc jockey help desk pollution steward
body shaming distance learning hobby pop stuntman
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Luigi Catizone