Corrispondenti dall’Italia-Isola Tiberina: tra mito e leggenda

Corrispondenti dall’Italia-Isola Tiberina: tra mito e leggenda

La nave di pietra nel fiume Tevere

Si formò, secondo la tradizione, nel 510 a.C. con l’accumularsi della gran quantità di messi che Tarquinio il Superbo possedeva in Campo Marzio e che i romani gettarono nel Tevere in segno di ultimo disprezzo, quando cacciarono il re dalla città. (Ma, come è risultato da recenti studi, l’isola dimostra un’origine assai più antica di quella tramandata dalla legenda).

L’isola, che divenne assai nota per il suo famoso tempio dedicato ad Esculapio, dio della medicina, venne sagomata artificialmente a forma di nave, con al centro l’obelisco in funzione di albero maestro, in ricordo dell’arrivo da Epidauro, nel 291 a.C., della divinità simboleggiata dal serpente.

Essa fu sede dell’antico ospedale pubblico di Roma, e ancora oggi assolve a tale funzione.

Il serpente sacro

Nel 293 a.C., narra la leggenda, mentre Roma è colpita da una grave pestilenza, una commissione di “esperti” si reca in Grecia, ad Epidauro, per chiedere un responso ad Esculapio, dio della medicina. Ad un tratto un grosso serpente, simbolo della divinità, esce dal tempio, si dirige verso la nave dei romani e vi sale. Il fatto viene interpretato come segno della volontà divina di… trasferirsi; ed essi ripartono felici e contenti. Giunti presso l’Isola Tiberina, si verifica la sorpresa: il serpente d’un balzo passa dalla nave all’isola. Altro chiaro segno di divina volontà: nel luogo si edifica immediatamente un bellissimo tempio dedicato ad Esculapio, e la pestilenza, come per incanto, sparisce. E’ il 291 a.C.

La festa dei cocomeri

Ogni 24 agosto si svolgeva nell’isola la “festa dei cocomeri”, una specie di sagra con la partecipazione di numerosi venditori del dolce e dissetante frutto estivo. In quella occasione si svolgevano tra ragazzi curiose gare di nuoto, da ponte Quattro Capi a ponte Rotto, per afferrare i cocomeri che divertiti spettatori gettavano nel fiume.

Tali giochi furono però proibiti nel 1870 perché spesso i nuotatori venivano travolti dalla corrente o finivano tragicamente tra le ruote dei mulini, allora numerosi in quel tratto di fiume.

Frate Orsenigo “er cavadenti”

Verso la fine del secolo scorso, quando presso l’ospedale Fatebenefratelli non esistevano i moderni gabinetti di odontoiatria, era assai nota la robusta e atletica figura di un fratone lombardo che in una modesta stanzetta al pianterreno esercitava la sua attività di cavadenti.

Si chiamava Fra Giambattista Orsenigo e fu personaggio popolarissimo all’Isola Tiberina tra il 1867 e il 1903, e a lui si fa risalire la fama che ancor oggi gode il reparto odontoiatrico dell’ospedale. Ma non era un dentista nel vero senso della parola in quanto non curava né prescriveva rimedi, ma estraeva soltanto denti con un sistema a dir poco primitivo, rapido e senza anestesia, spesso in maniera assai frettolosa e talvolta senza nemmeno far sedere il paziente, tanta era la povera gente che si affidava alle sue “cure”, rapide e gratuite.

Ma non solo i poveri ricorrevano a lui, perché si dice che ebbe l’onore di “guarire” anche famosi personaggi, tra cui Giosuè Carducci, Quintino Sella, Menotti Garibaldi e persino la celebre cantante Adelina Patti.

Usava pochissimi “ferri del mestiere”, ed essendo dotato di una forza eccezionale, a volte faceva a meno anche di quelli, servendosi del pollice e dell’indice della mano destra. Così fece anche con papa Leone XIII (1878-1903), il quale durante un’udienza confidò al frate di avere un dente che gli dava fastidio e che i medici non osavano estrarre in considerazione della sua tarda età. Frate Orsenigo chiese allora al Santo Padre di affidarsi un momento a lui; e quando il papa aprì fiducioso la bocca egli allungò la mano. Ma invece di saggiare il dente, in men che non si dica l’estrasse; il suo tocco era stato talmente leggero che il papa non aveva quasi sentito dolore. A testimonianza di quell’intervento rimane una fotografia con autografo, che il papa gli dette pur avendogli rifiutato il dente estratto, che il frate avrebbe voluto conservare per la sua singolare collezione.

Aveva infatti l’abitudine di metter da parte tutti i denti che estraeva, e li ammucchiò in tre cassapanche che ne contenevano oltre due milioni!

Bruno Padoan (Romano, gentile e colto)